Cumuli
Testi realizzati per il catalogo delle mostre "CÚMULOS
- IMPREGNACION DE GRASA SOBRE PAPEL" presso la galleria 704 oficina de
arte a Buenos Aires nel 2016 e presso Espacio Sísmico a Buenos Aires nel 2018.
Testo de Patricio Diego Suárez
LO INDISCERNIBILE COME PREMESSA
Nell'opera di Lucas Pisano c'è un'insistenza e una presa di
posizione legate ai materiali. Come se i materiali, lontani dall'essere inerti,
fornissero le informazioni virtuali necessarie per organizzare tensioni e
costruire concetti intorno all'immagine. L'esercizio di un'intelligenza che si
articola tra corpo agente e materia, una zona magmatica da cui emergono gli
indizi di un linguaggio. Una strategia compositiva che ci avvicina all'idea
baconiana di incidente: quell'evento singolare che irrompe nel processo
creativo e genera un tipo di precisione involontaria a livello di immagine che
sarebbe impossibile raggiungere dalla volontà soggettiva.
Nel caso di Pisano,
l'accidentale è diventato nel corso degli anni una premessa di lavoro. Comporre
senza uno schizzo preliminare, comprendere che i segni di temporalità
dell'opera devono essere conservati, seguire solo i vettori. Procedimenti di
aggregazione, spazzamento, pulizia: generare un corpo-massa per poi
schiacciarlo, tagliarlo, aggredirlo. Muovere il corpo-materia che tende verso
l'immagine, fargli delle incisioni, cancellarlo quasi completamente per
raggiungere il gesto, l'impronta. E far sì che l'impronta rimanga come prova di
un processo temporale su un gioco imprevedibile di variazioni. La relazione tra
desiderio, immaginario pittorico e materia. Parafrasando Lamborghini: pazienza,
culo ed errore.
MACCHIA E FIGURA
Cúmuli indaga ossessivamente il confine tra la
macchia e il figurativo. L'illusione figurativa è conquistata, ma da una
precarietà dell'immagine che è il diretto risultato del materiale stesso: il
grasso con i suoi confini sfumati conserva un'ambiguità suggestiva e di
risonanze associative che non si chiude in un senso totalizzante. L'occhio
rimane prigioniero di un movimento pendolare, una vibrazione d'onda che viaggia
rimbalzando tra un territorio stabile di illusione ottica e una zona
indiscernibile di dissoluzione rappresentativa.
Gli elementi che fungono da cornice d'azione sono alcune
idee di base di struttura: il supporto della carta colpito dalla patina di
grasso, lo sfondo a strisce, la trama della carta, del tessuto o del legno. Un
piano di consistenza, un ring, come condizione di possibilità di quella linea
d'azione da scoprire. Poi, il lavoro minuzioso con la materia, di azione e
reazione, attacco e difesa. Una miniera microscopica da cui emerge il gesto
come segno aperto, informazione indiscernibile che supera l'organizzazione
ottica dell'immagine e provoca un gioco di risonanze tra ciò che è
riconoscibile e ciò che non lo è: un corpo-figura che ai suoi confini sembra
definito, ma all'interno è moltitudine.
Pisano va dritto alle forze: è nelle pieghe della trama
della carta che appare la contorsione fisica del corpo. Non c'è umanizzazione
rappresentativa della carta, del tessuto o del legno; è nella violenza delle
fratture che si manifesta la torsione organica, il movimento intestinale, a
causa del peso del materiale che resiste alla sua appiattimento. Ed è anche
nelle irregolarità della trama del tessuto o della carta che si affaccia
l'indizio figurativo del corpo umano: un corpo-tessuto, un corpo-carta, un
corpo-immagine. In sintesi, lo sviluppo di un'operazione pittorica che riesce a
mantenere due o più livelli sensoriali e di lettura visiva in un movimento
simultaneo.
In altre parole, ciò che avviene al livello concreto della
materia con le sue resistenze si conserva al livello formale dell'immagine. Nel
momento stesso in cui siamo spettatori di una montagna di legno, la pupilla
compie un repentino giro di avvicinamento e l'immagine recupera la letteralità
della materia, svela l'artificio, i piani si emancipano dalla composizione, il
grasso si impone per sporcare il campo. Grazie a questa procedura, l'attività
dell'occhio si amplia, la costruzione narrativa diventa il lavoro dello
spettatore su un'immagine che, nonostante presenti tratti figurativi evidenti,
non si solidifica come immagine chiusa. Questa zona di indiscernibilità è l'amo
che l'immagine tende per attivare discorsi storici, di sensibilità morale o di
classe nello spettatore: mendicanti, discariche, povertà e precarietà.
Tuttavia, questo campo narrativo non smette di essere una ricostruzione
associativa dell'osservatore. L'unica cosa che abbiamo di fronte sono solo
indizi al confine tra il figurativo e il non figurativo.
ÍCONE E CROLLO
C'è una chiara decisione di conservare questa ambiguità che
va oltre la resistenza specifica del grasso e entra in un livello concettuale
che discute direttamente con la modalità vorace, veloce e apatica con cui ci
relazioniamo alle immagini oggi. O al contrario, i meccanismi soggettivi
favoriti dai social media e la logica della visibilità, dove l'immagine di noi
stessi viene postulata come unico indice di esistenza.
Nel caso di Lucas Pisano, il lavoro consapevole
sull'indiscernibile e il suo gesto beffardo di condurlo nel luogo dell'iconico
può essere letto come una presa di posizione di fronte a questa problematica.
Quali domande irradiano dalla cumulazione che si innalza sempre al centro delle
composizioni stabilendo una sorta di bersaglio, un è qui? Quella massa di
materia organizzata diventa un'icona, ma nel luogo in cui siamo abituati a
leggere la netta referenzialità del prodotto, ci troviamo di fronte a una zona
di crollo figurativo. Non si apre un paesaggio di rifiuti e discariche, c'è una
sintesi pittorica che trasforma il rifiuto in un'icona barocca, un totem
frizzante, un simbolo religioso in decomposizione.
Il carattere iconico deriva anche dall'estetica fotografica
della serie, favorita dal bianco e nero e dal trattamento della profondità.
Senza forzare troppo l'immaginazione, potrebbero essere fotografie d'archivio
del dopoguerra o di una civiltà ormai inesistente. Tuttavia, l'aspetto
fotografico non sorge da un'immagine levigata in cui scompare il gesto
pittorico, ma al contrario, si compone dalla profondità generata dal palinsesto
di piani che conservano l'accumulo di materia. Un altro cenno. Ciò che rende
fotografico il lavoro non è il procedimento di perfezione illustrativa, ma
l'immaginario della cultura fotografica, l'educazione visiva della fotografia
che funziona come una lente attraverso la quale lo spettatore si confronta con
il dipinto.
Potremmo intuire in quest'opera il sopravvolo di un'impronta
storica di catastrofe, l'evidenza di una sovrapproduzione verso il nulla e la
rovina come scoperta estetica. Cúmulos porta il rifiuto al livello
dell'auratico, presenta ciò che suppostamente non ha spazio come fulcro dello
spazio o della scena. Un mucchio di sporcizia che diventa centro di gravità e
acquista il carattere di un'effigie pubblicitaria. Sul podio dell'oggetto consumabile
siamo spettatori di una cumulazione indiscernibile che sprigiona la sua
estetica di demolizione, contaminazione e precarietà. E questo, come si
digerisce?
Testo de Patricio Diego Suárez
LO INDISCERNIBILE COME PREMESSA
Nell'opera di Lucas Pisano c'è un'insistenza e una presa di posizione legate ai materiali. Come se i materiali, lontani dall'essere inerti, fornissero le informazioni virtuali necessarie per organizzare tensioni e costruire concetti intorno all'immagine. L'esercizio di un'intelligenza che si articola tra corpo agente e materia, una zona magmatica da cui emergono gli indizi di un linguaggio. Una strategia compositiva che ci avvicina all'idea baconiana di incidente: quell'evento singolare che irrompe nel processo creativo e genera un tipo di precisione involontaria a livello di immagine che sarebbe impossibile raggiungere dalla volontà soggettiva.
Nel caso di Pisano, l'accidentale è diventato nel corso degli anni una premessa di lavoro. Comporre senza uno schizzo preliminare, comprendere che i segni di temporalità dell'opera devono essere conservati, seguire solo i vettori. Procedimenti di aggregazione, spazzamento, pulizia: generare un corpo-massa per poi schiacciarlo, tagliarlo, aggredirlo. Muovere il corpo-materia che tende verso l'immagine, fargli delle incisioni, cancellarlo quasi completamente per raggiungere il gesto, l'impronta. E far sì che l'impronta rimanga come prova di un processo temporale su un gioco imprevedibile di variazioni. La relazione tra desiderio, immaginario pittorico e materia. Parafrasando Lamborghini: pazienza, culo ed errore.
MACCHIA E FIGURA
Cúmuli indaga ossessivamente il confine tra la macchia e il figurativo. L'illusione figurativa è conquistata, ma da una precarietà dell'immagine che è il diretto risultato del materiale stesso: il grasso con i suoi confini sfumati conserva un'ambiguità suggestiva e di risonanze associative che non si chiude in un senso totalizzante. L'occhio rimane prigioniero di un movimento pendolare, una vibrazione d'onda che viaggia rimbalzando tra un territorio stabile di illusione ottica e una zona indiscernibile di dissoluzione rappresentativa.
Gli elementi che fungono da cornice d'azione sono alcune idee di base di struttura: il supporto della carta colpito dalla patina di grasso, lo sfondo a strisce, la trama della carta, del tessuto o del legno. Un piano di consistenza, un ring, come condizione di possibilità di quella linea d'azione da scoprire. Poi, il lavoro minuzioso con la materia, di azione e reazione, attacco e difesa. Una miniera microscopica da cui emerge il gesto come segno aperto, informazione indiscernibile che supera l'organizzazione ottica dell'immagine e provoca un gioco di risonanze tra ciò che è riconoscibile e ciò che non lo è: un corpo-figura che ai suoi confini sembra definito, ma all'interno è moltitudine.
Pisano va dritto alle forze: è nelle pieghe della trama della carta che appare la contorsione fisica del corpo. Non c'è umanizzazione rappresentativa della carta, del tessuto o del legno; è nella violenza delle fratture che si manifesta la torsione organica, il movimento intestinale, a causa del peso del materiale che resiste alla sua appiattimento. Ed è anche nelle irregolarità della trama del tessuto o della carta che si affaccia l'indizio figurativo del corpo umano: un corpo-tessuto, un corpo-carta, un corpo-immagine. In sintesi, lo sviluppo di un'operazione pittorica che riesce a mantenere due o più livelli sensoriali e di lettura visiva in un movimento simultaneo.
In altre parole, ciò che avviene al livello concreto della materia con le sue resistenze si conserva al livello formale dell'immagine. Nel momento stesso in cui siamo spettatori di una montagna di legno, la pupilla compie un repentino giro di avvicinamento e l'immagine recupera la letteralità della materia, svela l'artificio, i piani si emancipano dalla composizione, il grasso si impone per sporcare il campo. Grazie a questa procedura, l'attività dell'occhio si amplia, la costruzione narrativa diventa il lavoro dello spettatore su un'immagine che, nonostante presenti tratti figurativi evidenti, non si solidifica come immagine chiusa. Questa zona di indiscernibilità è l'amo che l'immagine tende per attivare discorsi storici, di sensibilità morale o di classe nello spettatore: mendicanti, discariche, povertà e precarietà. Tuttavia, questo campo narrativo non smette di essere una ricostruzione associativa dell'osservatore. L'unica cosa che abbiamo di fronte sono solo indizi al confine tra il figurativo e il non figurativo.
ÍCONE E CROLLO
C'è una chiara decisione di conservare questa ambiguità che va oltre la resistenza specifica del grasso e entra in un livello concettuale che discute direttamente con la modalità vorace, veloce e apatica con cui ci relazioniamo alle immagini oggi. O al contrario, i meccanismi soggettivi favoriti dai social media e la logica della visibilità, dove l'immagine di noi stessi viene postulata come unico indice di esistenza.
Nel caso di Lucas Pisano, il lavoro consapevole sull'indiscernibile e il suo gesto beffardo di condurlo nel luogo dell'iconico può essere letto come una presa di posizione di fronte a questa problematica. Quali domande irradiano dalla cumulazione che si innalza sempre al centro delle composizioni stabilendo una sorta di bersaglio, un è qui? Quella massa di materia organizzata diventa un'icona, ma nel luogo in cui siamo abituati a leggere la netta referenzialità del prodotto, ci troviamo di fronte a una zona di crollo figurativo. Non si apre un paesaggio di rifiuti e discariche, c'è una sintesi pittorica che trasforma il rifiuto in un'icona barocca, un totem frizzante, un simbolo religioso in decomposizione.
Il carattere iconico deriva anche dall'estetica fotografica della serie, favorita dal bianco e nero e dal trattamento della profondità. Senza forzare troppo l'immaginazione, potrebbero essere fotografie d'archivio del dopoguerra o di una civiltà ormai inesistente. Tuttavia, l'aspetto fotografico non sorge da un'immagine levigata in cui scompare il gesto pittorico, ma al contrario, si compone dalla profondità generata dal palinsesto di piani che conservano l'accumulo di materia. Un altro cenno. Ciò che rende fotografico il lavoro non è il procedimento di perfezione illustrativa, ma l'immaginario della cultura fotografica, l'educazione visiva della fotografia che funziona come una lente attraverso la quale lo spettatore si confronta con il dipinto.
Potremmo intuire in quest'opera il sopravvolo di un'impronta storica di catastrofe, l'evidenza di una sovrapproduzione verso il nulla e la rovina come scoperta estetica. Cúmulos porta il rifiuto al livello dell'auratico, presenta ciò che suppostamente non ha spazio come fulcro dello spazio o della scena. Un mucchio di sporcizia che diventa centro di gravità e acquista il carattere di un'effigie pubblicitaria. Sul podio dell'oggetto consumabile siamo spettatori di una cumulazione indiscernibile che sprigiona la sua estetica di demolizione, contaminazione e precarietà. E questo, come si digerisce?
LO INDISCERNIBILE COME PREMESSA
Nell'opera di Lucas Pisano c'è un'insistenza e una presa di posizione legate ai materiali. Come se i materiali, lontani dall'essere inerti, fornissero le informazioni virtuali necessarie per organizzare tensioni e costruire concetti intorno all'immagine. L'esercizio di un'intelligenza che si articola tra corpo agente e materia, una zona magmatica da cui emergono gli indizi di un linguaggio. Una strategia compositiva che ci avvicina all'idea baconiana di incidente: quell'evento singolare che irrompe nel processo creativo e genera un tipo di precisione involontaria a livello di immagine che sarebbe impossibile raggiungere dalla volontà soggettiva.
Nel caso di Pisano, l'accidentale è diventato nel corso degli anni una premessa di lavoro. Comporre senza uno schizzo preliminare, comprendere che i segni di temporalità dell'opera devono essere conservati, seguire solo i vettori. Procedimenti di aggregazione, spazzamento, pulizia: generare un corpo-massa per poi schiacciarlo, tagliarlo, aggredirlo. Muovere il corpo-materia che tende verso l'immagine, fargli delle incisioni, cancellarlo quasi completamente per raggiungere il gesto, l'impronta. E far sì che l'impronta rimanga come prova di un processo temporale su un gioco imprevedibile di variazioni. La relazione tra desiderio, immaginario pittorico e materia. Parafrasando Lamborghini: pazienza, culo ed errore.
MACCHIA E FIGURA
Cúmuli indaga ossessivamente il confine tra la macchia e il figurativo. L'illusione figurativa è conquistata, ma da una precarietà dell'immagine che è il diretto risultato del materiale stesso: il grasso con i suoi confini sfumati conserva un'ambiguità suggestiva e di risonanze associative che non si chiude in un senso totalizzante. L'occhio rimane prigioniero di un movimento pendolare, una vibrazione d'onda che viaggia rimbalzando tra un territorio stabile di illusione ottica e una zona indiscernibile di dissoluzione rappresentativa.
Gli elementi che fungono da cornice d'azione sono alcune idee di base di struttura: il supporto della carta colpito dalla patina di grasso, lo sfondo a strisce, la trama della carta, del tessuto o del legno. Un piano di consistenza, un ring, come condizione di possibilità di quella linea d'azione da scoprire. Poi, il lavoro minuzioso con la materia, di azione e reazione, attacco e difesa. Una miniera microscopica da cui emerge il gesto come segno aperto, informazione indiscernibile che supera l'organizzazione ottica dell'immagine e provoca un gioco di risonanze tra ciò che è riconoscibile e ciò che non lo è: un corpo-figura che ai suoi confini sembra definito, ma all'interno è moltitudine.
Pisano va dritto alle forze: è nelle pieghe della trama della carta che appare la contorsione fisica del corpo. Non c'è umanizzazione rappresentativa della carta, del tessuto o del legno; è nella violenza delle fratture che si manifesta la torsione organica, il movimento intestinale, a causa del peso del materiale che resiste alla sua appiattimento. Ed è anche nelle irregolarità della trama del tessuto o della carta che si affaccia l'indizio figurativo del corpo umano: un corpo-tessuto, un corpo-carta, un corpo-immagine. In sintesi, lo sviluppo di un'operazione pittorica che riesce a mantenere due o più livelli sensoriali e di lettura visiva in un movimento simultaneo.
In altre parole, ciò che avviene al livello concreto della materia con le sue resistenze si conserva al livello formale dell'immagine. Nel momento stesso in cui siamo spettatori di una montagna di legno, la pupilla compie un repentino giro di avvicinamento e l'immagine recupera la letteralità della materia, svela l'artificio, i piani si emancipano dalla composizione, il grasso si impone per sporcare il campo. Grazie a questa procedura, l'attività dell'occhio si amplia, la costruzione narrativa diventa il lavoro dello spettatore su un'immagine che, nonostante presenti tratti figurativi evidenti, non si solidifica come immagine chiusa. Questa zona di indiscernibilità è l'amo che l'immagine tende per attivare discorsi storici, di sensibilità morale o di classe nello spettatore: mendicanti, discariche, povertà e precarietà. Tuttavia, questo campo narrativo non smette di essere una ricostruzione associativa dell'osservatore. L'unica cosa che abbiamo di fronte sono solo indizi al confine tra il figurativo e il non figurativo.
ÍCONE E CROLLO
C'è una chiara decisione di conservare questa ambiguità che va oltre la resistenza specifica del grasso e entra in un livello concettuale che discute direttamente con la modalità vorace, veloce e apatica con cui ci relazioniamo alle immagini oggi. O al contrario, i meccanismi soggettivi favoriti dai social media e la logica della visibilità, dove l'immagine di noi stessi viene postulata come unico indice di esistenza.
Nel caso di Lucas Pisano, il lavoro consapevole sull'indiscernibile e il suo gesto beffardo di condurlo nel luogo dell'iconico può essere letto come una presa di posizione di fronte a questa problematica. Quali domande irradiano dalla cumulazione che si innalza sempre al centro delle composizioni stabilendo una sorta di bersaglio, un è qui? Quella massa di materia organizzata diventa un'icona, ma nel luogo in cui siamo abituati a leggere la netta referenzialità del prodotto, ci troviamo di fronte a una zona di crollo figurativo. Non si apre un paesaggio di rifiuti e discariche, c'è una sintesi pittorica che trasforma il rifiuto in un'icona barocca, un totem frizzante, un simbolo religioso in decomposizione.
Il carattere iconico deriva anche dall'estetica fotografica della serie, favorita dal bianco e nero e dal trattamento della profondità. Senza forzare troppo l'immaginazione, potrebbero essere fotografie d'archivio del dopoguerra o di una civiltà ormai inesistente. Tuttavia, l'aspetto fotografico non sorge da un'immagine levigata in cui scompare il gesto pittorico, ma al contrario, si compone dalla profondità generata dal palinsesto di piani che conservano l'accumulo di materia. Un altro cenno. Ciò che rende fotografico il lavoro non è il procedimento di perfezione illustrativa, ma l'immaginario della cultura fotografica, l'educazione visiva della fotografia che funziona come una lente attraverso la quale lo spettatore si confronta con il dipinto.
Potremmo intuire in quest'opera il sopravvolo di un'impronta storica di catastrofe, l'evidenza di una sovrapproduzione verso il nulla e la rovina come scoperta estetica. Cúmulos porta il rifiuto al livello dell'auratico, presenta ciò che suppostamente non ha spazio come fulcro dello spazio o della scena. Un mucchio di sporcizia che diventa centro di gravità e acquista il carattere di un'effigie pubblicitaria. Sul podio dell'oggetto consumabile siamo spettatori di una cumulazione indiscernibile che sprigiona la sua estetica di demolizione, contaminazione e precarietà. E questo, come si digerisce?
Testo de Sol Fantin
La potenza
disturbante del materiale
Nella serie di lavori che compongono l'opera
Cumuli, c'è un sottile senso dell'umorismo. Humor nero, è chiaro.
Lì dove uno stesso, come spettatore, crede di essere sicuro di ciò che sta
vedendo, c'è uno sfasamento, un equivoco, un errore che rivela fino a che punto
lo sguardo proietta ciò che decide di proiettare su una superficie materiale
(anche se lo decide senza rendersene conto).
Ogni singola opera della serie mostra un cumulo di
materiali scartati, di rifiuti, un accumulo di spazzatura a forma di piramide,
al centro di una scena che non rimanda a nulla al di fuori di sé stessa: è il
non-spazio dal quale i prodotti vengono esposti per il consumo. In diverse di
queste opere, nel cumulo di spazzatura (legno o tessuti o giornali) si
intravede la forma accucciata, contorta, contorta di un corpo. Corpo vivente o
cadavere? Impossibile dirlo, ma senza dubbio: corpo scartato, come il materiale
stesso degli scarti che lo copre.
Visión oscena (letteralmente: ciò che dovrebbe essere fuori
scena) che tuttavia viene esposta in ogni angolo di una grande città: il corpo
umano ridotto a rifiuto. Ma il corpo stesso non si vede. È nudo? Si sta
masturbando? Sta piangendo? Sta agonizzando? Sta ridendo? Non si sa. Quando
cammino per la strada e vedo quel cumulo di spazzatura che però nasconde un
corpo simile al mio, svió lo sguardo: per pudore, per paura, per impotenza, per
abitudine. "Cúmulos" obbliga a dirigere lo sguardo direttamente verso
quel punto di oscurità, verso la forza della cosa che è lì, e che forse non è
solo una cosa. Ma nel caso di "Cúmulos", si tratta di un'immagine,
non c'è nessuno lì: possiamo guardare senza il rischio di essere interpellati dal
vivente. Senza sentire colpa per ciò che potremmo fare e non stiamo facendo,
senza il peso della decisione di essere indifferenti o meno. Possiamo guardare
come un voyeur, che forse guarda come cercando se stesso in uno specchio.
L'impatto è in gran parte determinato dall'aspetto
fotografico dei lavori. La fotografia è un genere plastico che abusa della
verosimiglianza, dell'ansia di mimesi, della fantasmagoria della presenza
impossibile di ciò che è rappresentato. Il mito che i buoni selvaggi (parlando
in senso roussoiano) temessero che l'anima venisse rubata quando venivano
fotografati rivela solo il nostro arcaico terrore dei fantasmi. Di coloro che
tornano da un aldilà qualsiasi per reclamare ciò che spetta loro. Ecco perché
c'è un'enorme inquietudine di fronte a ciò che sembra la fotografia di un corpo
sepolto sotto i giornali o i panni sporchi. Quel corpo e io non stiamo
condividendo il mondo ora, ma potremmo averlo condiviso. Quel corpo sepolto tra
i rifiuti era reale.
Cumuli ricorda la
fotografia degli anni quaranta, o anche precedente. I primi registri
documentali dell'umanità nella sua dimensione più abietta: le pile di cadaveri
nei campi di sterminio, ad esempio. Il corpo umano ridotto a materiale che si
accumula. Ciò che si vede in Cumuli è, ironicamente, il rovescio del prodotto
di consumo: lo spreco che dovrebbe stare ai margini, ma è intronizzato al
centro della scena. La struttura museale o l'istituzione artistica trasformano
questa immagine in un nuovo prodotto di consumo, reintroducendola sul mercato
attraverso una sorta di estetica della crudeltà? Lo spettatore è interpelato da
questa domanda e corroso dalle sue risposte, tutte scomode.
Eppure, l'esperienza estetica è ancora nelle sue fasi
preliminari. I motori sono caldi, ora siamo pronti per ciò che segue: notare e
accettare che non c'è fotografia. Non c'è neanche disegno o pittura nel senso
tradizionale. Il design del cumulo di rifiuti che lascia intravedere un corpo
sotto di esso è un effetto prodotto dalla distribuzione di grassi industriali
su una superficie porosa. Un materiale che non appartiene al repertorio dei
materiali artisticamente consacrati, manipolato tramite pettini e altri
oggetti, ha prodotto l'effetto visivo di ciò che credevo di vedere, che mi ha
infastidito vedere, che ho accettato come qualcosa lì, senza rendermi conto che
ero io a proiettarlo.
Il grasso fa ingrassare: la sua visibilità su un corpo lo
rende appunto osceno, nel senso che lo esilia nel territorio del tabù, di ciò
che non deve essere visto. Un buon corpo non ha grasso visibile. Il grasso
sporca, imbratta, rovina. Eppure è necessario. Il grasso è un materiale del
mondo del lavoro, non del mondo del divertimento. Il grasso non è elegante, non
è bello, non è "comme il faut”. Il grasso è grezzo, è suburbano, è
quello che unge i capelli di Carlos De la Púa, perché attenzione: la poetica
del grasso ha la sua nobile tradizione. Lucas Pisano è un grande lettore di
Perlongher (lo so per certo, ho visto la sua copia delle opere complete, logora
per tanto essere letta): il grasso è come il fango del neobarocco, e un grasso
che suggerisce un cadavere è un grasso che sta dicendo che ci sono cadaveri.
Non c'è una foto, non c'è un disegno, non c'è una superficie
pulita su cui un tratto cerca di riprodurre un'immagine della realtà. C'è uno
schizzo di grasso manipolato con pettini su una superficie porosa, e c'è
un'immagine nella mia mente da spettatrice che si proietta lì e vede ciò a cui
è abituata a guardare, forse ciò che desidera nel profondo, perché il divieto
di guardare direttamente l'abisso genera quel desiderio colpevole che proietta
il fantasma: quel corpo diventato rifiuto, il rovescio dell'oggetto di consumo,
che potrei benissimo essere io stessa. Potrei benissimo essere io stessa, che
disastro. Quindi un mucchio di grasso che sporca una carta ruvida è
uno specchio. Qui c'è l'umorismo nero, e qui risiede la potenza critica di
"Cúmuli", nel punto in cui io, spettatrice, mi chiedo, chiudendo un
cerchio (un giro della spirale): Non sono forse tutte le immagini specchi in
cui proietto le mie paure, le mie maschere preferite, il rovescio della mia
coscienza o i suoi totem? L'immagine pubblicitaria, quella giornalistica,
l'intimità pubblica delle mie foto sui social network, l'immagine documentaria
e l'immagine artistica, tutte queste immagini, tutte confuse in uno spazio
comune regolato sempre più dalla logica dello spettacolo, non sono forse
prodotte dal mio stesso sguardo, che si nutre di esse ma le crea anche, in una
simbiosi dalla quale si può uscire solo attraverso una domanda? E quale è
quella domanda?
La pretesa onnipresenza delle immagini nelle nostre vite
urbane contemporanee, insieme alla loro grande sofisticazione, non dovrebbe
farci credere che la natura delle immagini abbia smesso di essere problematica.
Forse lo è più che mai. Ontologicamente, la domanda sarebbe che tipo di essere
tra gli esseri è un'immagine: cosa è la mia foto del profilo, cosa è l'immagine
pubblica di un governante, cosa vedo alle notizie in televisione; e
epistemologicamente, la domanda sarebbe che tipo di informazione posso estrarre
dall'immagine e quanto di quella informazione contribuisco io stessa, è nel mio
stesso sguardo e (come abbiamo detto prima) mi riflette.
Credo che uno dei meriti di "Cúmulos" sia
quello di installare in modo incisivo questa perturbazione intrinseca delle
immagini. In un contesto culturale desideroso di precipitarsi verso una sempre
più selvaggia scomposizione corporea, "Cúmulos" è un'opera
fastidiosa. L'immagine orribile si trova a metà strada tra la superficie
materiale dell'opera e il mio stesso sguardo.
È tra i corpi, come uno spettro che percorre il mondo mentre tutto marcisce.
Testo de Sol Fantin
La potenza disturbante del materiale
Nella serie di lavori che compongono l'opera Cumuli, c'è un sottile senso dell'umorismo. Humor nero, è chiaro. Lì dove uno stesso, come spettatore, crede di essere sicuro di ciò che sta vedendo, c'è uno sfasamento, un equivoco, un errore che rivela fino a che punto lo sguardo proietta ciò che decide di proiettare su una superficie materiale (anche se lo decide senza rendersene conto). Ogni singola opera della serie mostra un cumulo di materiali scartati, di rifiuti, un accumulo di spazzatura a forma di piramide, al centro di una scena che non rimanda a nulla al di fuori di sé stessa: è il non-spazio dal quale i prodotti vengono esposti per il consumo. In diverse di queste opere, nel cumulo di spazzatura (legno o tessuti o giornali) si intravede la forma accucciata, contorta, contorta di un corpo. Corpo vivente o cadavere? Impossibile dirlo, ma senza dubbio: corpo scartato, come il materiale stesso degli scarti che lo copre.
Visión oscena (letteralmente: ciò che dovrebbe essere fuori scena) che tuttavia viene esposta in ogni angolo di una grande città: il corpo umano ridotto a rifiuto. Ma il corpo stesso non si vede. È nudo? Si sta masturbando? Sta piangendo? Sta agonizzando? Sta ridendo? Non si sa. Quando cammino per la strada e vedo quel cumulo di spazzatura che però nasconde un corpo simile al mio, svió lo sguardo: per pudore, per paura, per impotenza, per abitudine. "Cúmulos" obbliga a dirigere lo sguardo direttamente verso quel punto di oscurità, verso la forza della cosa che è lì, e che forse non è solo una cosa. Ma nel caso di "Cúmulos", si tratta di un'immagine, non c'è nessuno lì: possiamo guardare senza il rischio di essere interpellati dal vivente. Senza sentire colpa per ciò che potremmo fare e non stiamo facendo, senza il peso della decisione di essere indifferenti o meno. Possiamo guardare come un voyeur, che forse guarda come cercando se stesso in uno specchio.
L'impatto è in gran parte determinato dall'aspetto fotografico dei lavori. La fotografia è un genere plastico che abusa della verosimiglianza, dell'ansia di mimesi, della fantasmagoria della presenza impossibile di ciò che è rappresentato. Il mito che i buoni selvaggi (parlando in senso roussoiano) temessero che l'anima venisse rubata quando venivano fotografati rivela solo il nostro arcaico terrore dei fantasmi. Di coloro che tornano da un aldilà qualsiasi per reclamare ciò che spetta loro. Ecco perché c'è un'enorme inquietudine di fronte a ciò che sembra la fotografia di un corpo sepolto sotto i giornali o i panni sporchi. Quel corpo e io non stiamo condividendo il mondo ora, ma potremmo averlo condiviso. Quel corpo sepolto tra i rifiuti era reale.
Cumuli ricorda la fotografia degli anni quaranta, o anche precedente. I primi registri documentali dell'umanità nella sua dimensione più abietta: le pile di cadaveri nei campi di sterminio, ad esempio. Il corpo umano ridotto a materiale che si accumula. Ciò che si vede in Cumuli è, ironicamente, il rovescio del prodotto di consumo: lo spreco che dovrebbe stare ai margini, ma è intronizzato al centro della scena. La struttura museale o l'istituzione artistica trasformano questa immagine in un nuovo prodotto di consumo, reintroducendola sul mercato attraverso una sorta di estetica della crudeltà? Lo spettatore è interpelato da questa domanda e corroso dalle sue risposte, tutte scomode. Eppure, l'esperienza estetica è ancora nelle sue fasi preliminari. I motori sono caldi, ora siamo pronti per ciò che segue: notare e accettare che non c'è fotografia. Non c'è neanche disegno o pittura nel senso tradizionale. Il design del cumulo di rifiuti che lascia intravedere un corpo sotto di esso è un effetto prodotto dalla distribuzione di grassi industriali su una superficie porosa. Un materiale che non appartiene al repertorio dei materiali artisticamente consacrati, manipolato tramite pettini e altri oggetti, ha prodotto l'effetto visivo di ciò che credevo di vedere, che mi ha infastidito vedere, che ho accettato come qualcosa lì, senza rendermi conto che ero io a proiettarlo.
Il grasso fa ingrassare: la sua visibilità su un corpo lo rende appunto osceno, nel senso che lo esilia nel territorio del tabù, di ciò che non deve essere visto. Un buon corpo non ha grasso visibile. Il grasso sporca, imbratta, rovina. Eppure è necessario. Il grasso è un materiale del mondo del lavoro, non del mondo del divertimento. Il grasso non è elegante, non è bello, non è "comme il faut”. Il grasso è grezzo, è suburbano, è quello che unge i capelli di Carlos De la Púa, perché attenzione: la poetica del grasso ha la sua nobile tradizione. Lucas Pisano è un grande lettore di Perlongher (lo so per certo, ho visto la sua copia delle opere complete, logora per tanto essere letta): il grasso è come il fango del neobarocco, e un grasso che suggerisce un cadavere è un grasso che sta dicendo che ci sono cadaveri.
Non c'è una foto, non c'è un disegno, non c'è una superficie pulita su cui un tratto cerca di riprodurre un'immagine della realtà. C'è uno schizzo di grasso manipolato con pettini su una superficie porosa, e c'è un'immagine nella mia mente da spettatrice che si proietta lì e vede ciò a cui è abituata a guardare, forse ciò che desidera nel profondo, perché il divieto di guardare direttamente l'abisso genera quel desiderio colpevole che proietta il fantasma: quel corpo diventato rifiuto, il rovescio dell'oggetto di consumo, che potrei benissimo essere io stessa. Potrei benissimo essere io stessa, che disastro. Quindi un mucchio di grasso che sporca una carta ruvida è uno specchio. Qui c'è l'umorismo nero, e qui risiede la potenza critica di "Cúmuli", nel punto in cui io, spettatrice, mi chiedo, chiudendo un cerchio (un giro della spirale): Non sono forse tutte le immagini specchi in cui proietto le mie paure, le mie maschere preferite, il rovescio della mia coscienza o i suoi totem? L'immagine pubblicitaria, quella giornalistica, l'intimità pubblica delle mie foto sui social network, l'immagine documentaria e l'immagine artistica, tutte queste immagini, tutte confuse in uno spazio comune regolato sempre più dalla logica dello spettacolo, non sono forse prodotte dal mio stesso sguardo, che si nutre di esse ma le crea anche, in una simbiosi dalla quale si può uscire solo attraverso una domanda? E quale è quella domanda?
La pretesa onnipresenza delle immagini nelle nostre vite urbane contemporanee, insieme alla loro grande sofisticazione, non dovrebbe farci credere che la natura delle immagini abbia smesso di essere problematica. Forse lo è più che mai. Ontologicamente, la domanda sarebbe che tipo di essere tra gli esseri è un'immagine: cosa è la mia foto del profilo, cosa è l'immagine pubblica di un governante, cosa vedo alle notizie in televisione; e epistemologicamente, la domanda sarebbe che tipo di informazione posso estrarre dall'immagine e quanto di quella informazione contribuisco io stessa, è nel mio stesso sguardo e (come abbiamo detto prima) mi riflette.
Credo che uno dei meriti di "Cúmulos" sia quello di installare in modo incisivo questa perturbazione intrinseca delle immagini. In un contesto culturale desideroso di precipitarsi verso una sempre più selvaggia scomposizione corporea, "Cúmulos" è un'opera fastidiosa. L'immagine orribile si trova a metà strada tra la superficie materiale dell'opera e il mio stesso sguardo. È tra i corpi, come uno spettro che percorre il mondo mentre tutto marcisce.